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Avamposto, giornalisti in prima linea in terra di Calabria

Pubblichiamo l’intervista, realizzata da Simone Marchiori, a Roberto Rossi, autore, insieme a Roberta Mani, del libro “Avamposto”. Di seguito alcuni cenni biografici degli autori, mentre a questo link trovate la pagina facebook del libro.

Roberta Mani è nata a Milano nel 1968. Giornalista, è caporedattore centrale di News Mediaset. Per il Tg di Italia Uno «Studio Aperto» si è occupata come inviata di alcuni fra i maggiori casi nazionali e internazionali di cronaca nera e giudiziaria. Ha coordinato e curato le edizioni dei settimanali di approfondimento di Italia Uno, fra i quali Lucignolo, Live, Tutto in un notte, Borders, Rewind. Si è occupata di informazione in Calabria per il Rapporto 2009 di Ossigeno, l’osservatorio FNSI-OdG sui cronisti minacciati.

Roberto Rossi è un siciliano di Catania nato nel 1980. Vive e lavora a Milano. Scrive da anni di mafia e giornalismo su «Problemi dell’informazione» (Il Mulino). Cura i Rapporti di Ossigeno per l’informazione, l’osservatorio FNSI-OdG sui cronisti minacciati. Per il teatro ha scritto l’Inchiesta drammaturgica sul caso Spampinato, andata in scena in prima nazionale nel 2008. Ha lavorato al quotidiano «La Sicilia» e nella redazione di «Studio Aperto».

1) Roberto, parlaci del tuo libro: cosa ti ha spinto a raccontare le storie di alcuni tuoi colleghi?

“Sono ormai quasi sette anni che mi interesso del rapporto tra mafia e informazione. Prima ancora della mia tesi di laurea sui cronisti uccisi dalla mafia in Sicilia, e poi con una lunga collaborazione col trimestrale Problemi dell’informazione. L’incontro con Alberto Spampinato – col quale assieme ad Angelo Agostini s’è dato vita a Ossigeno per l’informazione – e con Roberta Mani, coautrice di Avamposto alla quale va il merito di questo libro nell’esatta misura del 50%, ha fatto il resto.

Mi è sempre interessato indagare sulla relazione impossibile tra due poteri fondati entrambi sulla gestione delle informazioni. Da una parte, l’omertà, il silenzio, fondamento di ogni potere mafioso, dall’altra la parola, la divulgazione, il giornalismo, pietra angolare della democrazia. Approcciarsi con questo taglio allo studio delle mafie e del giornalismo, mi ha permesso di prendere immediatamente coscienza che dove c’è la mafia non può esserci democrazia e viceversa. Una consapevolezza confermata dal fatto che il sistema mafioso – mafia, politica, impresa, cultura – incide non solo sul modo di fare informazione, ma anche su altre fondamentali libertà tutelate dalla Costituzione.

È la prospettiva con la quale è stato scritto Avamposto, che non è solo un libro sui cronisti calabresi in pericolo, ma anche, forse soprattutto, il racconto di una terra dove oggi è più lampante questo vuoto di democrazia che pervade i territori occupati dalla mafie. L’alto numero di cronisti minacciati (sedici ne abbiamo raccontati, ma da quando è uscito il libro siamo già a diciannove) è un indice. Scavando intorno a queste storie, dilatandole nel loro contesto, abbiamo cercato di fare emergere il grande pericolo per la democrazia che sta correndo l’intero Paese avendo permesso e continuando a permettere alla ‘ndrangheta di prosperare.”

2) Che Calabria ti hanno restituito le persone che hai incontrato scrivendo questo libro?

“Una Calabria ancora non del tutto consapevole di cosa è diventata. Il potere lì non è in mano ai rappresentati delle istituzioni. Un bravo sindaco, per fare un esempio, può fare bene il suo lavoro per quattro, massimo otto anni. Cosa sono anche dieci anni, di fronte al potere secolare che alcune famiglie di ‘ndrangheta hanno in quei territori? In Calabria vieni al mondo con la consapevolezza che il potere è in mano a due, tre famiglie – due, tre cognomi – che governano il tuo territorio, quando va bene, da alcune decine di anni.

Tempo fa leggevo un pezzo di una studentessa calabrese che raccontava come da bambina, mentre tre coetanei davano fastidio a lei e alle sua amiche, si fosse sentita protetta da un uomo che sculacciò sonoramente i tre monelli. Quell’uomo era un noto mafioso. Questa cosa mi ha fulminato. Fin da bambini, spesso, in Calabria l’esperienza della ‘ndrangheta è un’esperienza di protezione, di vicinanza, di amicizia. Se dovessi raccontare io la mia prima esperienza di mafia, sarebbe la vista di cadaveri esangui per le strade di Catania durante la guerra di mafia degli anni Ottanta, o il rumore dei colpi di pistola appena fuori da scuola durante la lezione di Scienze alle elementari, non sarebbe certo la carezza di un boss.”

3) Si stanno moltiplicando le storie di giornalisti che ricevono minacce ed intimidazioni nel nostro Paese. Il clima, di cui la “legge bavaglio” è solo uno dei segnali, non è certo  rassicurante: tempi duri per il diritto di informazione.

“Credo che, rispetto al passato, si siano ampliate le possibilità dei cittadini di mantenersi bene informati. Ci vuole un po’ di fatica, ma se uno vuole riesce comunque ad accedere alle notizie vere. Se invece ti accontenti della televisione o di alcuni giornali, stai abdicando al tuo ruolo di cittadino declassandoti a suddito. Questo mi pare stia accadendo in Italia: molti cittadini non sentono la responsabilità della democrazia. Preferiscono rintanarsi nel privato, coccolare figli e animali, fregandosene di quello che accade intorno a loro.

Ma le nuove tecnologie, l’acceso alla professione di giornalista un po’ – solo un po’ – più democratico rispetto al passato, hanno reso più ampi gli spazi per fare buona informazione. E una buona informazione è sempre pericolosa per il potere politico-mafioso. Fai bene a parlare di un clima. Sono convinto anch’io non sia una caso che di legge bavaglio si discuta in un periodo in cui sono aumentate le minacce ai giornalisti. La pressione per chi vuole fare bene questo mestiere è molto più forte che in passato, proprio perché sono aumentate le esperienze di giornalismo vero. La cultura delle minacce e quella della censura preventiva sono le classiche due facce della stessa medaglia.

Se la legge bavaglio fosse stata già in vigore, molti colleghi di cui scriviamo in Avamposto non sarebbero stati minacciati. Non avrebbero dovuto scegliere se smetterla o se continuare a rischiare facendo bene il loro mestiere, scelta quest’ultima che hanno preso tutti. Dove non riesce la mafia, potrebbe riuscire il Governo con questa legge: zittirli.”

4) Riesci, nonostante tutto, a darci qualche elemento di speranza?

“Direi di sì. Le buone notizie ogni tanto arrivano. Quando senti che Marcello Dell’Utri è stato condannato a sette anni in secondo grado, che anche gli intoccabili rischiano seriamente di svernare in carcere – attendiamo il giudizio di Cassazione – ti rendi conto che in questo Paese gli anticorpi funzionano ancora. Certo sarebbe il caso di accelerare il processo che ci liberi dalle mafie, e per farlo non possiamo delegare tutto alla magistratura. Occorre che ognuno faccia la sua parte, i politici, i giornalisti, la società civile, il cittadino che, oltre a spazzolare il cane, prenda sul serio il suo ruolo. Parteggi, si informi, voti consapevolmente.”

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